Erano quasi le sei di pomeriggio, l’ombra del palazzo si stava ritirando dal campo, e a fornire riparo, era rimasto solo uno degli alti pini romani. Napoleone si dedicava alla sua seconda disciplina prediletta, quasi con la stessa passione con la quale si liberava da impegni per giocarvi, si dedicava al non così nobile gioco delle bocce, per scandire i momenti di noia; ma in quel momento il principe francese era distratto, con la mente flessa verso la sua altra grande passione, vide sua madre Ortensia scendere le scale con un foglio di carta tra le dita; era una donna alta e snella, con dei lunghi capelli biondi, dei lineamenti delicati quasi quanto lei e dei grandi occhi blu, la dama giunse e diede personalmente al figlio una lettera del suo amico, François-René de Chateaubriand, all’epoca Napoleone aveva ventidue anni e non vedeva da tempo l’ex ambasciatore, il quale non scriveva mai solo per cordialità ma sempre con estro ed amicizia, tra le ultime cose diceva di aver avuto un’idea per un’opera sull’abate trappista Armand De Rancé, poi per goliardia gli chiese delle sue avventure romantiche, dati i salaci pettegolezzi giunti sino in madrepatria; leggendo Napoleone sorrise, poi alzò lo sguardo e si rese conto d’aver obliato il punteggio. Il principe posò la lettera sul tavolino, che avevano spostato in cortile e si servì da bere, con ancora una boccia in mano; guardò silentemente i servitori attoniti e decise di esprimersi, ma nessuno dei presenti aveva l’ardire di pronunciarsi in risposta, neanche il giocatore avversario, Napoleone vide allora la madre ripassare lì davanti, prima si chiese come mai in quel dì s’affaccendasse così tanto, poi ne approfittò per chiedergli di giudicare il caso, e di stabilire così l’incerto. La dama de Beauharnais, donna saggia, rispose senza esitazione alcuna: “figliolo, ne sono desolata, ma avete perso”.
“Perché dite così, se non sapete ancora come stanno le cose?” replicò il giovane indispettito.
“Mon amour, se vi fosse stato il minimo dubbio, questi signori si sarebbero affrettati a darvi ragione”, rispose Hortense; il principe Napoleone gettò a terra la boccia; si guardò attorno, con sguardo lievemente truce, e rientrò nel palazzo.
Mentre stava rientrando, la madre con un’altra lettera in mano lo mise all’angolo, al riparo dalla vista di tutti; si era assicurata che fossero soli, poi gli porse il foglio che teneva stretto tra le mani chiedendo spiegazioni; il principe la prese ed appena lesse la prima parola, strinse i denti e disse che era da parte di un amico, dell’Europa orientale. La dama de Beauharnais, donna saggia, lo guardò con viso crucciato e chiese: “E scrive nella sua inesistente lingua? Quindi non è un cifrario a sostituzione?”.
Napoleone spalancò gli occhi e rimase in silenzio, poi la madre poco prima di voltargli le spalle aggiunse: “Credevi non lo riconoscessi? Sono la figlia di un imperatore, ricordi mon amour? Ad ogni modo, stai attento con questo gioco della carboneria, questi romani sono animali”.
Il principe salì la scalinata e giunse nelle sue stanze, spostò alcuni volumi dallo scrittoio e cominciò a cifrare la lettera ancora in piedi; si accorse che mancavano alcune indicazioni, pensò che le informazioni sarebbero potute essere state scritte con il succo di limone, si avvicinò al camino, e al fuoco avvicinò la missiva, ad un angolo apparsero le indicazioni, erano per quello stesso giorno, per le dieci di quella sera, rimase a guardare il miscuglio di lettere e lo gettò tra le fiamme, quella sera non era di quel gioco che aveva voglia; i nobili scambiano la rivoluzione per la caccia al cinghiale, comunque difficoltosa, ma non fondamentale.
Fuori dall’arcuato passaggio tra le mura di Palazzo Rospigliosi, trainata da sei cavalli, l’appariscente imperiale sotto una luna piena sostò davanti il principe, il quale avvolto in mantello da sera nero, vi salì; sorpassò il Quirinale ed entrò nel Rione Trevi; sorpassato questo dovette abbandonare quel mezzo, poco adatto ad esser lasciato fuori dall’abitazione di una donna sposata; si parla di una certa Caterina Marzio moglie di un fornaio del rione, il cui mestiere notturno faceva certo gioco alla coppia di amanti, i quali si erano incontrati liberamente, per quasi tutte le sere del freddo inverno, che si lasciavano andare alle spalle. Mentre il principe continuava a piedi il tragitto, e poiché era così che era fatto, passò davanti al forno della vittima d’infedeltà, e scambiò con lui due parole di circostanza: “Che buon prodotto che avete”, “ne sentite il profumo eccellenza?” rispose il bottegaio che non aveva contezza dei fatti, e che se ne avesse avuto, avrebbe potuto costituire un pericolo, aldilà della gelosia, della quale sopportava i pesi sola la povera Caterina. Dal canto suo, era però Napoleone a dover stare attento, mentre solcava la soglia della maritata e ai vicini della stessa.
Anche quella sera il principe andò a bussare alla porta di Caterina, la donna aprì il portoncino e lo tirò dentro, poi lo abbracciò mentre colpiva la porta per chiuderla, il suo respiro si premette contro il petto di lui, poi si gettarono sul letto senza salutarsi.
Sembrava il tempo d’un bacio, che il cielo si stava pian piano tingendo di luce, la volta era già celeste e la linea dell’orizzonte si mostrava più calda; rossa o forse viola, trasmetteva anch’essa un’imponente bellezza; ma ‘si bell’opera la separava dalla sua principesca metà.
Entrambi gli amanti fumavano, la donna prese uno dei piccoli sigari dalla confezione sul comodino, mentre Napoleone si stava rivestendo, lei gli chiese d’accendere, mentre accendeva un fiammifero, il principe francese le disse: “arderei Trevi se me lo chiedessi”, e si baciarono; “ma temo che mio marito se ne accorgerebbe”, rispose Caterina, altra donna saggia, dando spinte verso la porta a Napoleone, che fece un saluto militare goffamente scorretto, e uscì con il mantello sulla spalla.
I due amanti avevano accennatamente parlato, di un espediente per far passare Carlo Luigi tranquillamente, attraverso quella porta, ma nonostante il sospetto della donna, non ci avevano speso poi molto tempo, e così fu durante il giorno che il futuro imperatore si scervellò.
Il giorno seguente, Napoleone fu svegliato relativamente presto dal fratello, il quale gli chiese con modi, tra i non più garbati, se avesse bruciato una lettera indirizzata ad entrambi, Napoleone si stropicciò gli occhi e Luigi gli diede uno schiaffo su una guancia, poi mentre il fratello maggiore lo aggrediva cominciò a ridere, gli disse che tanto l’appuntamento era saltato ed il fratello lo colpì con più intenzione. Luigi disse al fratello di prepararsi e gli fece una proposta che non avrebbe mai rifiutato, di andare a fare una promenade alla villa dei Quintili a leggervi “La Storia di Roma” di Cassio Dione, in particolare quando scrive dell’Imperatore Commodo il quale sottrae i beni dei Quintili. In realtà Carlo Luigi si vendicò del fratello minore, facendolo attendere fuori un portone, mentre ora lui s’intratteneva con un’avvenente dama; occhio per occhio, dente per dente.
Luigi avrebbe detto di non aver capito bene, ma il fratello Napoleone, tornò a palazzo al richiamo di: “Devo andare a farmi prestare dei vestiti da nostra madre”.
Giunti a destinazione, Napoleone andò a bussare alle porte della madre, alla quale prima spiegò la situazione e poi chiese ausilio; Ortensia, madre comprensiva, gli disse di farsi accompagnare dalla serva Bartola, a cercare il giusto abito, e aggiunse di aver sempre voluto una figlia.
Quella sera, il mantello andò a coprire un bel vestitino celeste, con ricami dorati, pizzi, merletti e trine. Così abbigliato, tornò presso la casa dell’amata, e batté contro la porta al motto di: “Ieri non mi sei bastata”, ma non aprì la cara fedifraga, fu il marito fosco in viso; un Bonaparte non può certo fuggire da un fornaio, così Napoleone tentò la sorte; disse parlando in falsetto d’esser un modista, il marito di Caterina lo scacciò con un bastone, Napoleone fece qualche passo indietro, tenendo la posizione e parlando ancora con toni acuti, per fortuna il suo cocchiere aveva sentito tutto ed era accorso, così con un altro paio di passi indietro, il futuro imperatore salì sulla carrozza e si defilò silenziosamente dalla clandestinità, ma non dopo aver preso un bel pò di bastonate. Di questi fatti al mattin seguente, ne era a conoscenza la città tutta di Roma.