Nella mia stanza – Racconto di Francesco Sini

Mi chiamo Efrem Gregory, sono nato a Konigsberg l’attuale Kalilingrad e mi sono laureato in medicina e chirurgia con specializzazioni in psichiatria e chimica nell’Università Lomonosov di Mosca. Durante la guerra sono stato arruolato, e poi decorato, nei servizi medici dell’Armata Rossa dei Lavoratori e dei Contadini nel grado di tenente anziano, fino a non pochi giorni fa sono stato parte di un’equipe medica facente capo allo stato maggiore dell’Armata Sovietica. Non occupo l’incarico per me preposto dal grande compagno Stalin ormai da 96 ore circa, ossia dal 20 aprile 1949. Ora mi trovo ad Atene e scrivo queste righe in seguito ad azioni disonorevoli che ho compiuto, e delle quali sono pentito e mortificato a causa dell’abominio che ho permesso. Non voglio denigrare la grande Unione delle repubbliche socialiste sovietiche poiché anche il sole ha delle zone più fredde, ma voglio rendere pubblico il motivo del suicidio di alcuni valorosi compagni combattenti e di una compagna infermiera, perché le loro famiglie vengano a conoscenza dei fatti che li hanno spinti a ciò, io personalmente non ho avuto altrettanto coraggio.

Dalla fine della guerra avevo cominciato a sintetizzare ed a sperimentare sostanze gassose per un utilizzo bellico, nel caso fosse scoppiata una guerra contro le nazioni capitalistiche. Nel dicembre del ’48 ho completato un nuovo gas, che pare avere effetti altamente stimolanti e tossici, ed ho richiesto l’autorizzazione alla sperimentazione al commissario Adrian Gavrila. Con mio sgomento la risposta fu davvero puntuale, ed il contenuto scioccante, mi si approvava l’applicazione su cavie umane dei miei gas a base di stimolanti. Il 4 aprile 1949, con il patrocinio della direzione centrale dei lavori forzati, il gruppo di scienziati del quale ero a capo, avviò la sperimentazione con la scelta dei prigionieri, gli zèka, in un gulag moscovita, situato al civico 16 dell’Ulitza Petrovka non distante dalla Piazza Rossa, cui il nostro laboratorio si affiancava.

Al fine di ottenere dati più precisi, scelsi personalmente tra i prigionieri, come da indicazione, cinque nemici della madre patria Russia.

Il primo soggetto scelto si chiamava Klaus Wittman, convinto e pluridecorato nazional-socialista idolatrato tra i carristi della Wermacht, arruolato nei corpi franchi Caspari dopo la grande guerra, partita dalla natale Brema, la sua campagna era iniziata nel 1914 senza nessun pretesto, giovane ed entusiasta, aveva dato battaglia in nome del brandello rimasto d’idea sino alla fine ’45, aveva combattuto tra le file dei temibili Werwolf, fu catturato con alcuni suoi camerati al confine svizzero.

Ludwig Reinhard von Bohmerwald, il secondo soggetto, era un giovanissimo nobile dei sudeti che si riferiva a se stesso ancora come appartenente alla razza ariana, era nei ranghi della Divisione Panzer SS Leibstandarte Adolf Hitler dal 1939, venne fatto prigioniero tra le berlinesi rovine, quando già vi veleggiava il rosso stendardo, non credeva in una vita prima di essa o dopo la morte, credeva solo nella pura lotta.

Ivan Sorok, un centurione cosacco della guardia imperiale, imprigionato durante i moti rivoluzionari del 1917, prima aveva operato con le forze della cavalleria nell’offensiva all’Impero Austro-Ungarico durante la grande guerra, ed era sopravvissuto anche a trentuno anni di durissima prigionia senza mai rinnegare la propria fede ortodossa o i suoi principi zaristi.

Riguardo Konsantin e Zot Makarov, due fratelli ebrei di cui il primo trotzkista e il secondo tolstoiano, ho cercato molto le documentazioni ma i loro fascicoli non dicevano praticamente nulla su di loro e non erano neanche corredati di foto, l’unica informazione su Zot, il fratello minore, era un precedente arresto che gli era valso il soprannome di “Lo Scalpellino” poiché nella sua città aveva abbattuto dei simboli del socialismo con quello strumento, alla morte di Lev Trotzkij; il fratello maggiore era stato condannato a otto anni di reclusione, più di otto anni prima, la pena massima per il reato di omosessualità; li scelsi dopo un breve colloquio.

Nessuno si rifiutò dato che avevo falsamente fatto promessa che sarebbero stati liberati dopo l’esperimento, solo dopo seppi che non sarebbero stati liberati.

Le cavie dalle teste rasate furono ricollocate in un ambiente chiuso ermeticamente, in modo da poter controllare con precisione i loro livelli di ossigeno. Se inalato in alte concentrazioni il gas credo avrebbe potuto anche ucciderli, i cinque erano controllati per mezzo di alcuni microfoni e attraverso delle piccole finestrelle di vetro spesso da cui si poteva guardare dentro la camera. L’alloggio era migliore rispetto la media, c’erano alcune brandine prive di coperte, acqua corrente, un bagno e abbastanza cibo essiccato da sfamare le cinque cavie per un mese, per quanto riguarda le letture portai alcuni libri dalla mia biblioteca personale: Catone; de Balzac; Gogol’; Flaubert; Dostoevskij e per gentile concessione del commissario Gavrila i principi del comunismo di Friedrich Engels.

Per i primi cinque giorni andò tutto bene, le cavie non si lamentarono credendo che sarebbero stati liberati se si fossero sottoposti al test e, non avessero dormito per trenta giorni.

Controllavo personalmente le loro attività e tramite dei microfoni anche le loro conversazioni. Sentii sussurrare di tristi racconti di guerra.

Passati cinque giorni le cavie iniziarono a rimpiangere le circostanze e gli eventi che li avevano portati a essere rinchiusi in quel posto e incominciarono a manifestare delle gravi paranoie. All’improvviso smisero di parlare tra loro e incominciarono, a turno, a sussurrare ai microfoni ed attraverso le finestrelle a specchio. Stranamente, sembrava che tutte le cavie fossero convinte di poterci convincere di essere migliori delle altre persone chiuse in cattività con loro. Inizialmente io ed i miei colleghi supponemmo che fosse un’altro effetto collaterale del gas.

Dopo otto giorni Klaus Wittman incominciò ad urlare. Corse per la camera continuando ad urlare a squarciagola per circa tre ore di fila quando non fu più in grado di urlare continuò a emettere sporadici rumori gutturali, ogni tanto era chiaro cosa dicesse, pareva che nella sua lingua ripetesse un avverbio: <<Niemals, niemals, niemals>> credo non intendesse arrendersi. Quando il tenace Wittman smise ipotizzai si fosse lacerato le corde vocali, ma la cosa che mi lasciò più di stucco fu l’indifferenza degli altri soggetti. Infatti continuarono a bisbigliare ai microfoni, finché un altro prigioniero cominciò ad urlare. Le due cavie che rimasero in silenzio presero dei libri e li imbrattarono, pagina dopo pagina con le loro feci, per poi tranquillamente attaccarle sopra il finestrone. Poi anche i bisbigli ai microfoni cessarono.

Passarono altri tre giorni. Noi scienziati controllavano periodicamente che i microfoni funzionassero ancora, perché ritenevano fosse impossibile che non provenisse più alcun suono dalla camera. Tuttavia il consumo di ossigeno indicava che tutti e cinque i soggetti erano ancora vivi. Per la precisione, consumavano un alto livello di ossigeno come se fossero sotto sforzo.

Il tredicesimo giorno avevo il desiderio di comunicare con quei poveruomini ma il commissario politico me lo vietò in tronco. La mattina del quattordicesimo giorno facemmo lo stesso una cosa che, secondo il protocollo, non avremmo dovuto fare, sperando di ottenere una qualche reazione da parte delle cavie, usammo l’interfono installato dentro la camera per mandare un messaggio ai prigionieri. Temevamo che fossero morti o in coma.

Annunciai: <<Apriremo la camera per riparare i microfoni. Allontanatevi dalle porte e sdraiatevi supini a terra o vi spareremo. Se collaborerete, uno di voi sarà liberato immediatamente.>>

Con stupore, udì una singola frase in risposta, pronunciata con chiaro accento tedesco e voce calma: <<Non vogliamo più essere liberati>>.

Dopo questo fatto si aprì un’aspra discussione fra noi scienziati ed il corpo militare che finanziava la ricerca. Alla fine, visto che non riuscivamo ad ottenere ulteriori risposte usando l’interfono, decidemmo di aprire la camera a mezzanotte del quindicesimo giorno.

La camera fu liberata dal gas stimolante e riempita con aria fresca ed immediatamente, dai microfoni, delle voci incominciarono a lamentarsi. Tre di loro si misero a supplicare che il gas fosse riacceso, come se fosse in gioco la loro stessa vita. La camera fu aperta e dei soldati furono mandati a recuperare le cavie dell’esperimento. I poveruomini incominciarono ad urlare più forte che mai e lo stesso fecero i militi quando i videro cosa c’era nella camera. Quattro delle cinque cavie erano ancora viventi, e vivente è il solo il termine clinico corretto.

Le razioni di cibo degli ultimi cinque giorni non erano state toccate. Pezzi di carne provenienti dalle cosce e dal torace, quasi certamente, di Konsantin Makarov erano stati infilati nel tubo di scarico posto al centro della camera, in modo da bloccare la fognatura e dieci centimetri d’acqua avevano ricoperto il pavimento. Non abbiamo determinato con certezza quanto di quel liquido fosse effettivamente acqua e quanto fosse sangue. I quattro sopravvissuti all’esperimento avevano grosse porzioni di muscoli strappate dai loro corpi. Lo stato della carne e le ossa esposte sulle loro dita indicavano che le ferite erano state inflitte a mano nuda, e non con i denti come inizialmente si era pensato. Dopo un più attento esame dell’angolazione delle ferite ho scoperto che la maggior parte, se non tutte le ferite erano state auto-inflitte.

Gli organi addominali che si trovano sotto la cassa toracica di tutte e quattro le cavie sopravvissute erano stati rimossi. Mentre il cuore, i polmoni e il diaframma erano ancora al loro posto, la pelle e la maggior parte dei muscoli attaccati alle costole erano stati strappati via, esponendo le ossa della cassa toracica. Tutte le vene e gli organi erano rimasti intatti, le cavie li avevano semplicemente tirati fuori dal proprio corpo e li avevano disposti a terra, aperti a ventaglio ma ancora funzionanti. Il tratto digestivo di tutti e quattro fu visto lavorare, digerire cibo. In un attimo ci fu chiaro che quello che stavano digerendo era la loro stessa carne che si erano strappati e mangiati durante gli ultimi giorni.

La maggioranza dei soldati faceva parte del corpo speciale della struttura, ma nonostante ciò si rifiutarono di tornare nella camera per prelevare i prigionieri. Questi continuavano a gridare di essere lasciati nella camera e a pregare affinché il gas fosse riacceso, dicendo che avevano paura di addormentarsi.

Con nostra grande sorpresa, le cavie opposero una fiera resistenza nel momento in cui i soldati cercarono di farli uscire dalla camera. Uno dei soldati russi morì a causa di uno squarcio alla gola, mentre un altro rimase gravemente ferito quando i suoi testicoli con un  morso vennero strappati via ed anche un’arteria della sua gamba lacerata dai denti di uno dei prigionieri ormai quasi irriconoscibili tra loro, maschere della nostra crudeltà. In tutto sono cinque i soldati che hanno perso la vita, se si conta quelli che si sono suicidati in questi giorni

Durante la lotta, a Zot Makarov una delle quattro cavie sopravvissute si perforò la milza e incominciò a sanguinare copiosamente. I miei assistenti del corpo medico provarono a sedarlo ma in quella stanza si dimostrò impossibile. Nell’ambulatorio adiacente gli fu iniettato un quantitativo di morfina dieci volte superiore alla dose normale prevista per gli essere umani, e quello ancora si dimenava come un animale impazzito, riuscendo a rompere una costola e il braccio di uno dei miei colleghi del reparto medico. Anche se ormai nel suo sistema vascolare era rimasta poco più che qualche goccia di sangue, il suo cuore continuò a battere per altri due minuti. Anche quando il cuore si fermò, la cavia continuò per altri tre minuti a urlare e agitarsi, attaccando chiunque si trovasse a tiro e ripetendo la parola <<ancora>> all’infinito, sempre più debolmente, finché finalmente non rimase in silenzio e stesi un lenzuolo bianco su di lui.

I quattro prigionieri rimanenti erano gravemente feriti e furono trasportati nel mio ambulatorio. I tre con le corde vocali intatte continuarono a implorare per riavere il gas e così rimanere svegli. Ivan Sorok che era nella situazione peggiore fu portato nella sala operatoria. Mentre procedevamo a rimettere gli organi all’interno del corpo, un medico scoprì che la cavia era immune ai sedativi che gli avevano somministrato prima dell’operazione. Quando gli avvicinarono alla bocca la mascherina con il gas anestetico per addormentarlo, Sorok lottò per liberarsi dalle cinghie che lo imprigionavano,  Nonostante ci fosse un soldato pesante una di novantina chili che gli bloccava i polsi, la cavia riuscì a strappare quasi completamente le cinghie di pelle che aveva attorno alle braccia. Ci volle una dose di anestetico leggermente superiore a quella dell’altro soggetto per addormentarlo, nello stesso istante in cui le sue palpebre calarono e si chiusero, il suo cuore smise di battere.

Il secondo che fu portato in sala operatoria era la prima cavia che si era messa a urlare, il maggiore Klaus Wittman. Le sue corde vocali erano distrutte e quindi era incapace di supplicare o impedire l’operazione. Quando avvicinammo la mascherina con il gas anestetico alla bocca, la sua unica reazione fu di scuotere violentemente la testa, in segno di disapprovazione. Gravila seppur con un leggera riluttanza, suggerì che si procedesse all’operazione senza l’utilizzo di anestetici e la cavia fece subito cenno di sì sorridendo in un modo che non avevo mai visto. La procedura andò avanti per sei ore e la mia équipe rimise a posto i suoi organi addominali e cercò di ricoprirli con quello che rimaneva della sua pelle. Ripetei varie volte che era possibile, dal punto di vista medico, che il paziente sopravvivesse, non perché ci credessi ma perché avevo paura. Un’infermiera terrorizzata che assistette all’operazione, dichiarò vi aver visto la bocca del paziente curvarsi in un sorriso ogni volta che lo guardava negli occhi.

Quando finii l’operazione, Wittman mi guardò dritto negli occhi e iniziò a rantolare, sforzandosi di parlare. Credendo che si trattasse di qualcosa di grande importanza, mi fece procurare un foglio ed una penna in modo che il paziente potesse scrivere il suo messaggio. Scrisse semplicemente: “Continuate a tagliare”. Continuai a farlo finchè il mio cuore resse.

Konstantin Makarov alla vista del fratello inerme seppur immobilizzato cominciò a dare delle violente testate contro il muro, i soldati dissero che non potevano ma so che non vollero fermarlo, dopo un certo numero di colpi mi fissava emetteva un risolino dal suo ghigno e poi ricominciava a frantumarsi il cranio contro la parete, a quattordici minuti dal primo colpo Makarov raggiunse il fratello.

L’ultimo prigioniero, Ludwig von Bohmerwald, subì lo stesso intervento, sempre senza anestetici, anche se preferii iniettargli un paralitico. Io e gli altri chirurgi avevamo trovato impossibile procedere altrimenti con l’operazione perché il paziente continuava a ridere. Una volta che fu totalmente paralizzato, la cavia, Ludwig, poté solo seguire con gli occhi i movimenti di noi medici attorno a lui. L’effetto del paralitico si esaurì dopo pochissimo tempo e subito la cavia riprese a dimenarsi e a chiedere del gas stimolante. Gli scienziati provarono a chiedergli perché si fosse inferto quelle ferite e perché continuasse a chiedere del gas.

L’unica risposta che ottennero fu: <<Dovevo rimanere sveglio>>.

In seguito, i due prigionieri tedeschi sopravvissuti furono legati e rimessi dentro la stanza dai soldati, nell’attesa che fosse deciso cosa farne di loro. Dovetti subire l’ira del Commissario Gavrila per non avere raggiunto i risultati che gli erano stati richiesti e mi propose di praticare l’eutanasia sui prigionieri sopravvissuti. Tuttavia un’ ufficiale del KGB appena giunto, vide del potenziale in quell’esperimento e disse di voler vedere cosa sarebbe accaduto se avessimo riacceso l’emissione di gas. Giuro che mi opposi con violenza, ma fui scavalcato naturalmente.

Prima che la camera fosse nuovamente sigillata, i due prigionieri furono faticosamente collegati all’elettroencefalografo e legate con cinghie imbottite di contenimento, dopo che Wittman fu attaccato al macchinario, osservammo con sorpresa che le sue onde cerebrali si mantenevano su dei livelli piuttosto normali per la maggior parte del tempo, per poi precipitare inspiegabilmente. Sembrava che il cervello della cavia soffrisse ripetutamente di morti cerebrali, prima di ritornare all’attività normale.


Poi l’ufficiale del KGB puntò la pistola contro Klaus Wittman che era legato al lettino, mentre gli altri scienziati fuggivano dalla camera, urlai in preda al panico: <<Non rimarrò chiuso qui dentro con questi esseri!>>, me ne vergogno molto. Poi urlai al paziente: <<cosa ti sta succedendo? Devo saperlo!>>. L’altra cavia, Ludwig von Bohmerwald che poteva ancora parlare, iniziò a urlare di sigillare immediatamente la camera. Le sue onde cerebrali mostravano le stesse linee anomale dell’altro prigioniero. L’ufficiale mi diede l’ordine di chiudere all’istante la sala operatoria, anche se dentro vi erano ancora tre dei miei colleghi scienziati: Anton Bazhen; Lel’ Marat ed Onisim Smirnov. Uno di essi tirò fuori una pistola e sparò un colpo proprio in mezzo agli occhi del commissario Gavrila, prima che questo riuscisse a chiudere la porta. Poi indirizzò l’arma verso Wittman e gli sparò al viso colpendo uno zigomo, anche il quel frangente von Bohmerwald cominciò a ridere, poi ricordo che aggiunse: <<Noi siamo voi. Noi siamo la pazzia che si annida dentro tutti voi, pregando ogni momento di essere liberata dal vostro inconscio più selvaggio, siamo la speculare mostruosità che tenete a freno. Noi siamo quello da cui vi nascondete la notte, quando andate a letto. Noi siamo quello che riducete al silenzio e alla paralisi, ogni volta che vi rifugiate in quel sonno che noi non possiamo calpestare>>, anche se credo di non ricordare qualcos’altro.

Mentre i prigionieri stavano per liberarsi, Lel’ Marat osservò l’uomo legato per qualche secondo, mentre le porte alle sue spalle si chiudevano per sempre, poi mirò al cuore scoperto nel petto della cavia e fece fuoco almeno quattro o cinque volte colpendolo sicuramente due volte.

Mentre la linea dell’elettroencefalogramma diventava piatta, Ludwig, con voce strozzata, disse: <<ero quasi libero>>.

Dopodiché sono fuggito anche io verso la Grecia, questa è la conlusione della mia testimonianza.