E QUELLA NOTTE LA BARCA ANDO’ GIU’… – Racconto di FLORINDO DI MONACO

E’ notte. Nel profondo silenzio, rotto dal ritmico e monotono sciabordio delle onde, un vecchio barcone arrugginito, stracarico di migranti, naviga dalle coste africane verso l’Italia. E’ una massa di disperati in cerca di una vita migliore. Il mare è placido e tranquillo, ma tutto d’un tratto le nuvole oscurano la luna e le stelle, l’immensa distesa d’acqua piomba nel buio più assoluto. Le onde si fanno altissime, il vento spira sempre più impetuoso. Sul mare in tempesta stende il suo velo pietoso una notte che non è mai stata così nera. Per ore l’imbarcazione oscilla paurosamente in balia dei dai flutti che, sempre più minacciosi, alla fine la rovesciano con tutto il suo infelice carico umano. Qualcuno in preda alla disperazione cerca di aggrapparsi a un pezzo di legno e lotta fino all’ultimo respiro per non soccombere, ma non trova via di scampo. Decine di cadaveri galleggiano sulle acque diventate improvvisamente selvagge e indomabili.

Poi, come per miracolo, la furia della tempesta incomincia lentamente a scemare. E già l’alba  spiega le sue timide ali rosate su una distesa di onde tornate incredibilmente calme e rassicuranti. I gabbiani col loro stridulo verso annunziano che la riva è vicina. Prossima alla terra dei Fenici, Lampedusa, porta d’Europa, perla marina, si mostra da lontano con le sue palme e le bianche casette dei pescatori. Mario, uno di loro, come ogni giorno esce di buon’ora con la sua barca a gettare le reti. Quella mattina si trova davanti agli occhi uno spettacolo che mai avrebbe voluto vedere: un numero impressionante di corpi sbattuti dalle onde e, a stento riconoscibile in mezzo a quella spaventosa distesa di cadaveri, una donna completamente priva di sensi ma che, aggrappata a una tavola superstite, affannosamente respira ancora. Il giovane si getta in acqua, con tutta la forza che ha riesce a strapparla alle onde e la porta in salvo sulla barca. Benché svenuta e di un pallore cadaverico, la ragazza attira immediatamente l’attenzione del pescatore. E’ gelida come il marmo e sanguina abbondantemente. Il giovane le fascia le ferite e inverte rapidamente la rotta verso la riva.

Appena sbarcato, affida la donna alle cure dei medici che prestano servizio nel più vicino posto di pronto soccorso. Sottoposta a un adeguato trattamento di emergenza, dopo qualche giorno riprende conoscenza, ma è terrorizzata, non sa dove si trova, non riesce a parlare, le tremano le braccia e le gambe. A poco a poco però la paura cede in lei il passo alla fiducia: aprendo gli occhi, si ritrova accanto il pescatore che le ha salvato la vita e due suore che l’assistono amorevolmente. Appena è in grado di parlare, non fa altro che ripetere in continuazione: “Azira” e “Libia”, il suo nome e il suo paese. A Farah, un’interprete algerina fatta venire appositamente, Azira tra i singhiozzi e le lacrime racconta la sua triste storia.

Poverissima e orfana di genitori fin dalla più tenera età, per guadagnarsi da vivere a quattordici anni attraversa il deserto libico con una carovana finché il destino la porta a Cirene dove trova lavoro presso una famiglia. Ma qui padre e figlio la violentano brutalmente, e la ragazza finisce per ritrovarsi incinta. Con altrettanta brutalità poi la prendono a calci, pugni e frustate fino a farla abortire per cancellare i segni della loro colpa. In preda al panico Azira fugge e trova lavoro in un lontano villaggio in una fabbrica di tessuti. Il lavoro è durissimo, la paga irrisoria. Passa un anno finché un giorno incontra un giovane dal cuore d’oro che la chiama a lavorare insieme a lui come cameriera in un ristorante. I due non tardano a innamorarsi e in breve decidono di sposarsi, sperando in un avvenire migliore. Ma ecco, caduta la dittatura, la guerra civile tra clan e opposte fazioni insanguina il paese. Presa dal panico, la popolazione raccoglie quel poco che ha e cerca scampo verso il mare che appare l’unica via di salvezza. E pur di farsi trasportare in Italia quella povera gente è costretta a cedere al vergognoso ricatto di uomini senza scrupoli che si fanno dare i pochi soldi messi faticosamente da parte con enormi sacrifici.

La barca della speranza prende il largo verso le coste della Sicilia. Tutti a bordo dormono quand’ecco all’improvviso il mare comincia a gonfiarsi, diventa sempre più grosso, la fragile imbarcazione ondeggia su e giù finché un’ondata più alta la sommerge completamente. Lo scafo si capovolge e cola a picco. Azira si stringe con tutte le forze al suo uomo ma un’onda glielo strappa dalle braccia e lo scaraventa nelle profondità del mare. A questo punto termina il racconto. Tutti sono sorpresi dal fatto che lei sia l’unica sopravvissuta all’immane naufragio; gli stessi medici si chiedono meravigliati come sia possibile che per il forte trauma subito non abbia perduto il bambino che aspettava dal giovane sposo segnato da un così avverso destino.

Mario non si stacca da lei neanche un minuto. Non conoscendo l’arabo, la lingua di Azira, si fa capire colmandola di ogni genere di premure e di attenzioni. Riesce così a manifestare con gesti d’affetto quello che non sa esprimere con le parole. La ragazza si appoggia a lui quando lascia finalmente il letto e, facendosi forza sulle deboli gambe, muove timidamente i primi passi. Si china a terra e, sorretta dal giovane, bacia il suolo italiano. Da allora il legame con Mario si fa sempre più intenso: si guardano negli occhi, e dove non arrivano le parole parlano i baci e le carezze. Insieme a lei è raccolta nel centro di accoglienza un’enorme folla di migranti arrivati dai tanti paesi che si affacciano sull’altra sponda del Mediterraneo. Sono persone di ogni età che hanno in comune fame, malattie, miseria e una durissima vita alle spalle. Non mancano bambini che giocano festosi, e un neonato che succhia avidamente il latte. La madre ha appena varcato la soglia della pubertà, violentata sotto gli occhi di sua madre dallo stesso branco di criminali che avevano abusato della sua mamma.

Non tarda a sbocciare tra Azira e Mario il fiore dell’amore. La ragazza, ormai pienamente ristabilita, ritrova il colorito di una volta, si prende cura della persona, si guarda allo specchio come non ha mai fatto in vita sua, e si compiace di farsi bella per l’uomo di cui è innamorata; ancor più gode a mettere una collana e un paio di orecchini, dono e pegno d’amore del suo Mario. Un giorno il giovane le esterna il desiderio di farla sua sposa: “Il destino mi ha portato te tra le braccia, e tu tra le mie braccia resterai per sempre. L’Italia sarà la tua seconda patria”. Azira, toccata dalle sincere parole, risponde come le detta il cuore: “Mai rinnegherò la terra dove sono nata. Ma poiché così ha deciso la sorte, sarà sacra per me la tua terra, sacre saranno per me le vostre leggi. Ti sarò vicina nei momenti belli e anche il giorno in cui una disgrazia dovesse abbattersi sulle nostre case. La stessa pioggia bagna le aride rocce e i roseti in fiore, lo stesso sole splende per i mendicanti e per i re”.

Passano i mesi e si avvicina per Azira il tempo del parto. Mario le assicura che amerà come se fosse  figlia sua la creatura che lei porta in grembo. Ben presto la casa risuona degli allegri vagiti di una florida bambina mentre i due, innamorati più che mai, guardano gioiosi al futuro come gioioso filtra, tra le nuvole ancora umide di pioggia, l’arcobaleno.

 

FLORINDO DI MONACO