Notte romana – Racconto di FLORINDO DI MONACO

Il sole è già calato da un pezzo. Per riposarmi dopo una lunga passeggiata per le vie di Roma, mi fermo davanti alla scenografica fontana di Trevi. Chi non la conosce? E’ famosa nel mondo se non altro per la monetina che una folla ininterrotta di turisti di ogni colore si divertono a gettare alle loro spalle come fausto augurio di un felice ritorno nella città eterna.
E’ già l’ora che la folla dei turisti si va diradando finché, dopo aver sentito in lontananza i rintocchi della mezzanotte che invitano al placido sonno, mi ritrovo completamente solo in una notte d’intenso caldo estivo a osservare i lineamenti delle statue fissate in un’eterna immobilità e a inebriarmi di quelle acque zampillanti. Contemplo sulla scogliera rocciosa il dio Oceano, dalle forme muscolose e opulente e dallo sguardo fiero e altezzoso, che incede su un cocchio a forma di conchiglia trainato da due focosi destrieri alati, nei quali riconosco il mare a volte calmo a volte burrascoso. E intanto s’ode lo strepito argentino delle onde che si fa più insistente e ritmato fino a perdersi tra gli austeri palazzi dell’Urbe quanto più profondo e assordante diviene il silenzio della notte. Nel pieno dell’afa di luglio sento quell’acqua gelida penetrarmi nelle fibre più profonde del mio essere mentre mi lascio cullare dalla carezzevole frescura del ponentino.
L’argentea lampada della luna piena rende più bianchi i solenni, austeri marmi. Ma ecco che tutto d’un tratto, sotto quel candore immacolato, scorgo qualcosa che si muove. Non credo ai miei occhi, penso che sia un miraggio, forse una foglia smarrita portata dal vento. O forse un fantasma, partorito da una canicolare allucinazione. Ma… trasecolato vedo un brivido di vita serpeggiare in quei sassi esangui, che prendono forma e cominciano lentamente ad animarsi. La loro durezza va sciogliendosi in molle carne, come cera al calor della fiamma. Una dopo l’altra le pietre, mutando d’aspetto, non sono più pietre ma flessibili ossa, volti, braccia, mani, dita, spalle, torsi, gambe, piedi, che paiono carne viva; la pelle si sostituisce al rigido e freddo marmo, la linfa e il sangue iniziano a circolare in quelle membra che, imprigionate nella roccia inerte, sembrano risvegliarsi da un sonno millenario acquistando calore e insolito colore. Si sciolgono le giunture, le articolazioni si flettono, tendono a muoversi: è la vita che si insinua a poco a poco tra gli sterili massi senza vita.
I pesanti e impassibili blocchi marmorei diventano pian piano incredibilmente leggeri via via che, sotto l’effetto di un’invisibile bacchetta magica, perdono qualsiasi rigidità trasfigurandosi in creature animate dalle tenui sembianze femminili. I loro gentilissimi visi sembrano cosparsi di coralli, gli occhi vitrei scintillano come astri, le labbra somigliano a rubini, le guance a porcellana. Sugli omeri ben torniti ricadono sciolte le auree chiome, luccicanti di mirra e stillanti unguenti odorosi.
Innanzi a me che resto incredulo, estasiato, come in trance davanti alla beatifica visione dell’incredibile metamorfosi, si snodano tenere sagome di fanciulle, naiadi, nereidi, sirene di una tale soavità che non se ne possono immaginare di più belle sulla faccia della terra. Muovono nude le molli braccia e i fianchi con impalpabile, aerea leggerezza, e volteggiano incorporee sullo specchio d’acqua mormorante. Con che grazia, sospese nell’aria, senza ombra di peso, intrecciano danze a fior d’acqua quasi che un mago misterioso le muovesse con invisibili fili sottraendole alla forza di gravità!
Come se avessi bevuto chissà quale filtro sembra che stanotte si siano date appuntamento per me tutte le dee e le creature discese dall’Olimpo sulla terra per assumere fattezze umane. Talia, Aglaia, Eufrosine, le sublimi Grazie, librandosi in cerchio, disegnano figure delicatissime, mi vengono incontro, mi tendono le palme, mi invitano a partecipare alla loro danza. Tenendosi per mano ricamano un improvvisato girotondo, poi stan ferme e con soavissime, argentine voci intonano all’unisono un inno alla grandezza di Roma congiungendo il canto all’armonioso suono della cetra. Ecco poi le nove Muse, dai corpi morbidi e flessuosi, che per una notte hanno lasciato l’eccelso Elicona per bagnarsi nel limpido, trasparente, azzurro specchio. Mai lo scalpello di Fidia né il pennello di Zeusi hanno creato figure femminili di una tale perfezione da togliermi completamente i sensi. Mentre le vedo chinarsi e immergere nelle fluenti acque le verginali membra più bianche del latte e della neve, rapito al settimo cielo e avvolto da una celestiale fragranza, sento il mio corpo dissolversi in una dimensione che non può più dirsi umana.
Le stelle con i loro silenziosi ammiccamenti rispondono in coro al soave richiamo delle giulive, sonore fanciulle. Una flebile melodia di arpa e di flauto si diffonde da un angolo all’altro della piazza. Non so più dove sono, se in cielo o in terra. D’istinto allungo le braccia, tendo le dita per sfiorare e far mia, stringendola, tanta paradisiaca bellezza, vorrei farmi edera per non disgiungermi mai più dal loro amplesso, e strappare messe di baci alle loro bocche porporine olezzanti di tuberose. Ma a un comune mortale quale io sono non è concesso possederle, e quanto più mi avvicino le divine sagome divengono evanescenti e mi sfuggono come ombre.
A passi ora lenti ora veloci ma sempre ritmicamente modulati e cadenzati ninfe e grazie riprendono gli angelici giri. S’avanzano altre celestiali fanciulle, agili e snelle, simili a fate: sono le Stagioni e le Ore, cinte di fluttuanti veli nei quali l’arcobaleno spiega l’intero suo ventaglio di colori, e tutte insieme agitano in cadenza sulle acque le braccia e i flessuosi lombi con ineffabile soavità. Le lucentissime chiome d’oro zecchino, ove Selene da lassù gode a specchiarsi, disciolte in morbide ondulazioni fin sopra i lombi e le ginocchia, si confondono con i flutti, quando le dee, simili a pieghevoli giunchi, con leggiadre movenze immergono i fianchi nelle onde cristalline, risalgono, di nuovo si tuffano nelle acque e ancora s’alzano in cielo in una serie di ritmici volteggi e ondeggiamenti che non hanno più fine. Il tempo s’è fermato. E già sono l’uomo più felice del mondo, avvolto nell’alone di un’impensabile beatitudine, quand’ecco, nella scia di quelle candide vergini, dalle acque spunta come un sogno, ancor più bella quanto la luce dell’alba sovrasta tutte le stelle, Venere stessa a dirigere, ineguagliabile maestra, quelle danze così armoniose. Il corteo incede intonando un canto a voci alterne tanto melodiose che sembra come se tutti gli usignoli del mondo gorgheggiassero insieme a loro nella magica notte sospesa tra sogno e realtà.
E già lentamente s’affaccia dalla finestra del firmamento la prima luce del giorno, il cielo trascolora in rosa e turchese. E’Aurora che torna col suo carro dorato e le rugiadose nuvolette, sue ancelle. Il canto si smorza, poi cessa del tutto, le danze si fermano, le celestiali figure scompaiono senza lasciare traccia. Il prodigio svanisce a guisa di nebbia, e con esso il mio sogno, come le rose che non durano più dello spazio d’un mattino. La fontana riprende l’antico, festoso ritornello. Da lontano giungono i primi timidi passi di un assonnato viandante, mentre le statue, perduti i connotati umani, si mutano di nuovo in marmo, rigide, senza vita, senza calore, senza anima, fino a ricadere nell’atavico, indecifrabile silenzio di roccia e di sasso.

FLORINDO DI MONACO