Il signor Cesare – Racconto di Emilio Rossi

Mi ero addormentato sul divano davanti alla televisione, ipnotizzato da un film di una noia indicibile. Mi risvegliai a notte inoltrata e tutto indolenzito mi trascinai faticosamente nel mio letto. Morfeo mi aveva però abbandonato. Tentai col vecchio stratagemma della conta delle pecore: niente da fare, la mia mente sembrava una grande palestra dove i ricordi danzavano a bella posta davanti a me. Anche da bambino faticavo a prendere sonno. Il buio mi angosciava e non volevo che la mamma chiudesse le persiane. Risalii a ritroso il percorso della mia vita e mi ricordai di quell’antivigilia di Natale di tanti anni or sono. Ad una certa ora, non c’era santo che tenesse, ci si doveva coricare. Io, come al solito, cominciai vagare sui sentieri dell’ignoto in attesa che mi si chiudessero le palpebre. Poi all’improvviso un suono inquietante di campane a martello calò dal campanile della chiesa. Da tempo immemorabile quel suono rappresentava un inequivocabile avvertimento di un imminente pericolo, di un incendio, di un’alluvione o comunque di una disgrazia. Nei tempi antichi si favoleggiava che le campane a martello mettessero sul chi va là i pirati che venivano dal lago dall’inoltrasi in paese dove sarebbero stati accolti dagli abitanti scesi per le strade armati di tutto punto con bastoni, forconi e  perfino  di archibugi. Balzai giù dal letto, svegliai mio fratello che dormiva come un ghiro e, rivestitomi alla meglio, mi precipitai con lui  per strada, inseguito dalle raccomandazioni di mamma e papà, preoccupati per il freddo polare di quel dicembre rigido ed impietoso. Da ogni parte accorreva gente, chi con una lanterna a petrolio, chi con un vecchio lanternino a candela, chi con una pila a torcia come l’avevamo noi. La Maria «Gazzettiera» che, oltre a fungere da collettore del pettegolezzo locale, era anche la postina del paese, si apprestava a vivere il suo magico momento di vanaglorioso protagonismo, ripetendo a tutti i nuovi arrivati la ghiotta novità: «Non si trova più il signor Cesare. La signora Lucia non fa che piangere. È uscito questo pomeriggio alle tre per andare all’osteria della Mentina e non ha più fatto ritorno a casa». La mulattiera da cui sarebbe dovuto transitare il signor Cesare correva per un tratto lungo il letto di un torrente, per la maggior parte dell’anno tristemente asciutto in attesa di riconquistare la sua voce gagliarda e minacciosa in occasione delle periodiche piogge d’autunno e della primavera inoltrata. Lo perlustrammo palmo a palmo, ma dell’uomo neppure l’ombra. Che cosa mi sarebbe successo se mi fossi trovato di fronte un corpo inanimato? Paura, fierezza per un’impresa che mi avrebbe accreditato presso gli adulti? Una sorta di brivido ambivalente che mi mise in corpo una strana eccitazione in quella insolita avventura notturna. Le ricerche continuarono fino a tarda notte quando la Giustina, civetta del malaugurio, pronunciò il suo lugubre e macabro vaticinio: «Non ci sono più speranze ormai, domani alla luce del giorno recupereremo il cadavere». Lo diceva con un’indifferenza disumana che dipingeva sul suo volto rugoso una smorfia di fastidio per quella notte sottratta al dovuto riposo. E il Berto della Vigana, alto e allampanato, con un naso rubizzo per il freddo, con la sua voce baritonale azzardò la non improbabile congettura che potesse essere stato sequestrato e barbaramente trucidato a scopo di rapina. Parole che scolpirono nella mia fantasia immagini truculente di banditi, nascosti tra i cespugli, pronti a balzar fuori come belve assetate di sangue. Con questi fantasmi che girovagavano minacciosi nella mia testa, ritornai frettoloso a casa e  mi seppellii sotto le coperte.    

«Ho trovato il signor Cesare!». No, non sognavo: era la voce concitata di mio padre che dal cortile di casa nostra lo comunicava a mia madre. Mi risvegliai di soprassalto ed ancora in pigiama scesi verso l’uscio di casa deciso a seguirlo e a ricavarmi un ruolo da primo attore in quel giallo pieno di mistero. Mi immaginavo già il brivido di paura che mi avrebbe assalito davanti al cadavere di quell’uomo, circondato dalla gente che cianciava e si sbizzarriva nelle più fantasiose supposizioni e i carabinieri che rilevavano le impronte,  ma ero determinato a mettermi alla prova: volevo essere considerato un adulto a pieno titolo. Anche quella mattina mio padre si era recato come al solito ad accudire una capretta che teneva in una stalla ai margini del bosco. Lo considerava un obbligo a cui non si poteva sottrarre e per questo si alzava di buonora prima di tutti noi. La capra godeva di una specie di  diritto di precedenza. Quando spalancai l’uscio per chiedergli di aspettarmi fino a quando mi fossi vestito, meraviglia delle meraviglie, davanti a me si presentò il signor Cesare, vivo e vegeto, con l’aria dimessa di uno scolaretto che l’ha combinata grossa. In effetti mio padre, mentre si avviava verso la stalla, aveva visto profilarsi in lontananza una figura che procedeva con estrema lentezza. Chi poteva essere a quell’ora insolita? Poi la consolante certezza: era il signor Cesare. Il giorno precedente, antivigilia di Natale, all’osteria aveva incontrato gli amici tornati dall’estero per trascorrere le feste con la famiglia. Un bicchiere lo offro io, un altro l’amico dell’amico e s’era fatto tardi. Il signor Cesare s’era lasciato prendere la mano e  aveva alzato un po’ troppo il gomito. Era poi uscito dall’osteria in cimbalis bene sonantibus, con la testa in panne ed arrancando aveva affrontato l’erta salita. Giunto ad un bivio, com’è come non è, si era inoltrato nella mulattiera che conduceva verso il bosco. Completamente disorientato, aveva allora deciso di rifugiarsi in un anfratto di una roccia. Così accovacciato, grazie ai fumi dell’alcool, era riuscito ad evitare l’assideramento e alle prime luci del giorno era tornato sui suoi passi. Non vi dico la meraviglia di mia madre che accese immediatamente una grande fiammata nel camino per riscaldare le membra intirizzite del povero signor Cesare, rifocillato a dovere con caffè e grappa a volontà. Fu però mio fratello che ebbe l’incarico di recarsi dalla figlia del signor Cesare per il grande annuncio. Lo seguii con lo sguardo non senza una vena di invidia per quella sua missione speciale. La notizia del ritrovamento fece il giro del paese, ma la gioia più grande fu quella della signora Lucia e di tutta la famiglia: il più ambìto regalo di Natale.

Emilio Rossi

Emilio Rossi, insegnante in pensione, si occupa da anni di ricerche storiche e della valorizzazione della tradizione orale, specie delle valli del Luinese. Ha pubblicato «Un uomo e la sua gente – Storia di miseria e d’emigrazione dalla Val Veddasca alla Valle del Lys» (Edizioni Salcom); «Diario di un alpino luinese dal fronte balcanico» (Macchione Editore); «COLMEGNA- ripercorrendo gli antichi approdi», (Macchione Editore); «I Martiri della Gera» (Edizioni ANPI); ed è stato coautore del libro «Voci dalla seconda guerra mondiale» (Edizioni ANPI).