Attese – Racconto di Antonio Antonelli

Per anni, non ho viaggiato.

Da fine liceo,  per tutta la stentata università.

Non avevo problemi di salute né particolari difficoltà economiche. Era abulia, paura di fare, incapacità di decidere qualcosa, qualsiasi cosa. Il mondo, fuori dai ritmi consolidati e rassicuranti di un edificio scolastico, si era rivelato duro e complesso, ed io incapace di affrontarlo.

Adesso la mia vulnerabilità si ritraeva dinanzi all’ ignoto, e l’ulissismo – parola e concetto che  il professor Cavallo, mitico docente d’italiano, ci aveva tramandato dai banchi del liceo – si era immiserito a ben poca cosa  se le colonne d’Ercole mi assediavano sul letto, ove stazionavo pressochè in permanenza, giorno e notte.

Coltivavo il rimpianto delle villeggiature dell’adolescenza, il loro affacciarsi sul profumo di giorni in cui tutto poteva ancora accadere. La fuga era lì,a portata di mano, aveva l’immediatezza delle cose che occorre semplicemente fare, porre in essere. Un’apparenza di facilità subito smentita da una sensazione d’impotenza, la consapevolezza di una privazione che mi appariva definitiva, irrimediabile. Delle partenze percepivo l’assenza, il fatto che non mi avrebbero riguardato. Sembravano confinate in un tempo altro della mia vita, solo poche stagioni prima, ma remoto, ormai, ben oltre la  spoglia aritmetica degli anni. E  i gesti, semplici, banali, che le avevano scandite, sembravano appartenere a chissà quale straordinario, irripetibile  stato di grazia.

 

Certe albe d’estate, d’improvviso, mi svegliava un treno che transitava in una stazione secondaria, a poche centinaia di metri da casa. Il suo fischio prolungato  si propagava nel silenzio immoto del  primo mattino. La finestra della stanza incorniciava un riquadro di cielo dai colori ancora crudi, la  stessa magra luce  che  ritagliavano  le pensiline dei binari… il treno era il rimpianto, e il rimpianto era l’unico acerbo fiore che potessi coltivare  nelle terre scabre  della mia inedia.

Avevo imparato che il treno, minuto più minuto meno, sarebbe passato alle  5 e mezza, ma io mi svegliavo “in automatico”,senza bisogno di alcun congegno o suoneria,  già verso le due, ed ingannavo  l’attesa  leggiucchiando, come un viaggiatore ansioso che arriva ben per tempo in stazione, ed era grata quell’insonnia che mi restituiva il gusto di una spensieratezza lontana .

Immaginavo di salirvi, su  quel treno antelucano, e scendere nelle stazioni dell’infanzia: era l’unico modo per sfuggire a una giornata in cui sapevo non sarebbe accaduto niente. Alcune ore dopo, tra le  linee rette della  finestra, avrebbe fatto irruzione  il blu intenso, da   stordire, di una  mattina di piena estate. Era il cielo che avrei trovato all’arrivo, seghettato tra gli aghi di un filare di pini marittimi, a lato del  binario.

Ad aspettarmi, gli amici di allora, un pullover annodato sulle spalle, a proteggersi dal fresco pungente che in montagna anche le giornate estive possono riservare.

C’eravamo tenuti in contatto in quegli anni, biglietti di auguri a Natale e qualche lettera, sugli studi e le ragazze e i progetti per il futuro. Scambiavamo lunghe strette di mano, qualche abbraccio,la loro lavanda dopobarba si mischiava al profumo resinoso dell’aria. Provavo l’emozione di riscoprire intatta una confidenza antica.

Non sapevo se i miei amici di un tempo fossero davvero lì, in quel paese della memoria, o io li avessi idealizzati, come fissati nel tempo in uno stato di grazia ormai perduta.

Di loro, in quegli anni, mi erano rimbalzate poche e casuali notizie che parlavano di lauree, concorsi, fidanzamenti e qualche matrimonio riparatore: insomma,scampoli di esistenze normali. Ma le avevo inconsciamente rimosse, quelle amicizie ormai distanti erano un grumo di sole che non potevo offuscare con i problemi e le beghe della vita quotidiana.

E in quei giorni negati, io vivevo la loro lontananza, quel fantasticato  appuntamento nell’assolato torpore di una stazioncina per  treni locali , con il lancinante rimpianto del recluso che non può intraprendere il viaggio, agognato, oltre le sbarre della propria prigione.

Svanita l’effimera lusinga dell’immaginazione, affiochito sino a perdersi del tutto lo sferragliare di quel treno che aveva increspato il colore incerto del mattino, mi restavano davanti le lunghe ore vuote di una giornata che non mi  avrebbe regalato alcun altro sussulto di luce.

Sino alle due del mattino successivo.

 

Antonio Antonelli

Laureato in economia e commercio.Già dirigente ministeriale , sì è dedicato , dopo la pensione , a una vena narrativa riversata in racconti, raccolti, sinora , in due libri.