Il treno della Siberia – Racconto di Matteo De Carolis

Quella era una sera come tante sere. Per qualcuno le stelle avevano sempre lo stesso stupido colore e la notte era solo un tuffo nella pace, un riposo tranquillo, un altro po’ di buio prima di un altro po’ di luce.

In grembo ad uno di quei piccoli forni di mattoncini rossi, le mie dita tremavano cercando conforto. Come se il forno fosse rotto o il ghiaccio troppo forte per sciogliersi nella fiamma.

Si udiva l’eco di un fischio lontano, un maleducato scorrere di dischi ferrosi su attenti binari. I tremolii della terra al passaggio del treno. Un continuo battere, di pulsazioni, di ciglia. Impossibile stare fermi nelle ore che precedono lo scontro.

E allora è freddo e il calore non basta mai. E ti sotterri di pecore guardando vecchie foto ingiallite, ma niente basta. Ti scotti su una fiamma accesa, ma il gelo è ancora lì e l’unica cosa che scioglie sono le tue certezze.

Piccoli passi lenti e incerti su un ponte di assi sconnesse e marcite. Mani che ti tirano trasmettendoti fiducia. Una sicurezza che è solo loro. Fai un passo, ne arranchi un altro, e il ponte balla e le assi bisbigliano. E ti accorgi di quanto siano solide le tue certezze, che ciò che ti aspetta è un salto nel vuoto. Quel vuoto che a volte vuoi. Quel vuoto per cui spesso hai lottato. Ma questa non è una di quelle sere in cui cavalchi draghi sputa fuoco. Questa è una notte di paura, angoscia, inquietudine.

Percorri lentamente la rubrica, ti affacci alla finestra, sfogli un libro ma non riesci a leggere, ascolti musica ma ti sembra di non sentire nulla. Non c’è proprio niente che può scaldare il tuo cuore sta sera. Ti accorgi di aver cullato volatili per un’intera vita. Di aver sempre ascoltato i loro pigolii lamentosi, averli presi al volo quando si erano buttati di testa dal nido, hai avuto pazienza quando non sapevano ancora volare, ti sei spesso arrampicato in cima agli alberi per vomitare parole di conforto o un verme accartocciato, hai asciugato lacrime quando la mamma è volata via, quando il gatto ha atterrato un fratello, hai steccato ali rotte, una scatola di scarpe, una ciotola per l’acqua, un lombrico appena colto.

Ma nessun elicottero ti verrà a prendere sta sera mentre lanci grida di aiuto sull’orlo del precipizio. Nessuno sente, nessuno ascolta, la tv grida più forte, troppi stimoli, troppi pensieri. Una volta che l’uccello è guarito, sbatte le ali e se ne va.

E allora prega solo di non aver mai bisogno, prega sempre di non ammalarti, perché non ci saranno dottori abbastanza attenti per trovare i tuoi malanni. Quando tenderanno l’orecchio starai già gridando preparandoti all’impatto.

Questa la malattia di chi decide di coprire le sue bolle rosse, di gridare con le tonsille in fiamme, di correre con ossa rotte. Il problema è provare a farcela lo stesso, essere orgogliosi, aver paura di chiedere. Aver paura che nessuno saprà mai che cosa fare.

Non basta un liquido caldo, non il piangere, non il bere. Quelle sere c’è solo l’angoscia. L’angoscia di non sapere. Si annusa la morte e se ne ha paura e pensi che sarebbe meglio non essere solo. Strappi le tue carte su cui hai disegnato la libertà. E ripensi a quella casa in collina, l’odore di lavanda, la zuppa di tua moglie e quel grembiule che ti abbraccia. E ti sembra il paradiso.

E quante volte pieno di rabbia ho cosparso quest’immagine di benzina, quante volte sognavo treni e sapori sconosciuti. Quante volte mi vestivo d’aria per nascondermi fra la folla mentre ora cerco solo orecchie che ascoltino il mio pianto.

Mi butto nel letto. Sono esausto. Nemmeno la stanchezza può salvarmi. Il mio petto rimbomba, quasi si rompe, vedo la lama tagliente, ci affettano carote, taglia bene, sarà un bello spettacolo. La folla è già in tumulto e nessuno si chiede che sapore abbiano quei passi sulle assi di legno, nessuno si terrà il collo quando la lama bacerà il pavimento. Certo, voi avete la testa sulle spalle e spesso la annegate nelle sere d’estate, la sbattete contro muri e la sprecate bestemmiando.

Così mi sento nelle notti serene in cui non riesco a vedere la luna piena e vorrei essere ad una di quelle feste che odio solo per sentire clown prendermi in giro, chiacchiere inutili e mal di testa. Quelle feste da cui voglio sempre scappare ma che in notti così mi potrebbero salvare. E allora ti accorgi di quanto sei veramente solo, di quanto la morte se telefona di notte è di disturbo, che nessuno se ne uscirebbe al freddo per placare il tuo lamento. A che servi rubrica se quando servi non posso usarti? A che servono gli auguri, gli abbracci e i sorrisi nei giorni felici? Rispondimi se ti chiamo di notte, toglimi i sassi dai gomiti, guardami quando ho il sangue negli occhi.

Non c’è l’ho con te Dio, è colpa mia, della mia eterna indecisione e del mio non fare comunque niente, perché mi cullo nell’idea che si possa rimandare, ma in certe notti la sveglia suona e sai che il bivio è sempre più vicino. Arriverà un giorno Signore in cui non avrò più un paracadute di riserva e il primo salto sarà l’unico. Dovrò scegliere il lato giusto da cui buttarmi, l’altezza, la forza dello slancio. Forse mi farò male, forse mi ucciderò e comunque qualcuno piangerà: o il mio cuore o i cuori che deluderò.

Può darsi che sia così o forse ho sempre sbagliato, ma finché penserò così dovrò convivere con quei treni che passano in Siberia. Dove è gelo si viaggia poco, ma passando, quando passano le ruote, spezzano ghiaccio sui binari.

 

 

Matteo De Carolis

Matteo De Carolis, interprete e traduttore di lingua inglese e cinese, instancabile viaggiatore, sognatore insonne e scrittore su portali web e su fogli volanti. Ottimi piazzamenti in numerosi concorsi letterari di prosa e poesia, traduttore di romanzi per autori americani e australiani, editor e assistente editoriale per la casa editrice 13Lab con la quale ha anche pubblicato il romanzo “Quel giorno che sono morto”.