LA NOTTE DI VANESSA – Racconto di FLORINDO DI MONACO

   

    Confusa nella folla di lucciole che dopo il tramonto affollavano i lunghi viali delle periferie milanesi, Vanessa  spegneva con una sigaretta, accesa furiosamente una dopo l’altra, i minuti delle interminabili attese.

     Le macchine sfrecciavano come bolidi, qualcuna accennava a fermarsi, poi correva più veloce finché scompariva nella nebbia, sempre più densa via via che ci s’inoltrava nella notte. Quando un’auto finalmente si fermava, era il solito rituale: un finestrino che s’abbassava, poche parole scambiate in fretta, un breve affare da concludere, tutto secondo un copione che sembrava dettato dalla sorte o dalla necessità. A volte lo sportello si richiudeva, e Vanessa riprendeva a passeggiare in su e in giù. Altre volte infilava le lunghe gambe nella vettura e scompariva nel dedalo delle vie, inghiottita anch’essa dalla nebbia che si faceva sempre più fitta, sempre più impenetrabile nelle interminabili, gelide notti senza luna.

   La sua era la squallida routine di chi si vede costretta a vendere se stessa per vivere, anzi per sopravvivere, affogando il naturale istinto di maternità nel fango del sesso e del denaro.

  Una fredda notte di febbraio, la tramontana spazzava impietosa il lungo viale di ippocastani. Vanessa camminava nervosa ai bordi della via. Le auto sembravano svanite nel nulla. D’un tratto giunse alle sue orecchie un lamento flebile, simile al miagolio di un gattino. Spense frettolosamente la sigaretta, attraversò di corsa la via.

   In cima a una montagna di sacchetti dell’immondizia, avvolta in un ruvido straccio, galleggiava una creaturina stremata dal gelo, lasciata lì forse da poche ore. Aveva accanto una bottiglietta di latte, vuota. Vanessa la prese in braccio e la strinse forte al petto per riscaldarla: immediatamente la sentì come qualcosa di suo.

   Al neonato mancava il respiro; sotto un lampione fluorescente il viso era paonazzo, cianotico. L’avvolse in uno scialle di lana, poi infilò come una pazza, una dopo l’altra, strade e piazze finché giunse al più vicino ospedale. I sanitari la presero in cura – era una femminuccia – e fecero tentativi disperati per salvarla.

   Ma a lei, Vanessa, che tutti conoscevano come la prostituta del quartiere, nessuno diede retta. La fecero allontanare, e in fretta. Tornò a casa giurando che quella sarebbe stata l’ultima notte sul marciapiede, degradante palcoscenico del suo pane quotidiano. Quella bambina venuta dal destino risvegliò in lei un desiderio di maternità che giaceva sepolto nel più profondo del cuore. Udì tutto d’un colpo una voce insistente, come scossa elettrica ad altissima tensione, che le comandava di cambiare vita, subito e per sempre.

    Capì di essere un albero senza radici, sentì che tanti anni gettati al vento di un facile e disonesto guadagno erano cicatrici difficili da rimarginare. Per giorni Vanessa andò all’ospedale per avere notizie della bambina. La liquidavano con poche sillabe, la scacciavano. A stento poi seppe che la piccina, che avevano chiamata Ivana, era fuori pericolo e che un viavai di coppie della Milano bene ne chiedevano l’affidamento. La notte di un’immensa tristezza calò nel suo animo. Era lo sbaglio di un’intera giovinezza sprecata quando speranza e disperazione, caduta e riscatto s’erano sfidate in un logorante duello.

    Abitava da anni in uno squallido monolocale nella zona del Lambro, che manteneva con i proventi del sesso. In poco tempo si ritrovò senza un euro in tasca. E dovette inesorabilmente lasciare quella misera stanza. Trascorse giorni e notti sulle panchine della stazione centrale finché non trovò alloggio nei locali della Caritas. Il buon padre Anselmo, cappuccino, che ne era il rettore, non tardò a capire che cuore d’oro battesse nel petto di quella sfortunata ragazza, forte di carattere e ricca di buoni sentimenti; perciò ci mise tutto l’impegno per aiutarla a cercare un lavoro onesto.

   Per caso il religioso era amico della famiglia che aveva adottato la bambina: una coppia facoltosa senza figli, lui ingegnere, lei impiegata delle poste. Grazie a lui Vanessa entrò in quella casa come baby sitter, e vi restò a tempo pieno.  

  Con i mesi e gli anni alla piccola Ivana continuò a prodigare cure degne della migliore delle mamme. Giorno dopo giorno la bambina andava sciogliendo quel pezzo di ghiaccio che anno dopo anno era diventato il cuore di Vanessa. Per la legge non poteva mai diventarlo; ma nell’istinto represso di madre quella bambina fu sempre sua figlia. Se avesse potuto, l’avrebbe portata in grembo per partorirla lei e gridare a tutti: è mia! Per non staccarsi mai più da Ivana decise di lavorare per sempre in quella casa. Eppure cresceva il desiderio di farsi anche lei una famiglia, trovare un uomo che l’amasse e le facesse schiudere in un fiore meraviglioso quell’utero che finora era stato solo veicolo di moneta e di piacere carnale. L’istinto di maternità ora agiva in lei come una forza insopprimibile. Sentire nelle viscere quelle indefinibili vibrazioni simili a farfalle in volo, sentire il vagito di un bebé nella culla, da allevare con lo stesso amore con cui stava portando su quella bambina che sua però non era e mai sarebbe stata, erano diventati la sua idea fissa, martellante.

    Era stanca di mentire a se stessa: a trentasei anni, pensava, non era tardi per cambiare il mestiere più facile in quello più difficile del mondo. Aveva incontrato Andrea anni prima, tutte quelle volte che lei prendeva il tram 114, e lui era di turno al volante. Forse a entrambi il cuore era battuto forte in quei pochi attimi che i loro sguardi s’incontravano e il silenzio era rotto dalle labbra che accennavano a un reciproco sorriso. Il taciturno conducente aveva sognato forse di farle cambiare vita, salvarla dall’inferno della strada, portarla all’altare.     

                  Lo rivide per caso, in strada, e fu subito la scintilla di un fuoco che già

                  covava sotto la cenere. Lui fu il primo a sentire sulle labbra il sapore dei baci

                  veri di quella donna.

                      Si sposarono ai primi di luglio, Vanessa e Andrea, presso Milano, in una chiesetta

                  di campagna. Il pensiero atroce di doversi separare da Ivana, la figlia che aveva

                  adottata nel suo cuore, fu presto dissipato perché i padroni di casa misero a disposizione

                  per lei e il marito, senza nulla pretendere, un piccolo appartamento sfitto che avevano

                  al piano di sotto.

                      Così Vanessa continuò ad accudire a Ivana anche quando, in capo a poco più

                  di un anno, mise finalmente al mondo una vispa bambina che chiamò Alessandra,

                  per ricordare la mamma che aveva perduto in tenerissima età. Ora, con tutto il suo

                  bel daffare per Ale e per Ivana, andava seppellendo nelle ninnananne quel passato

                  che aveva arato lunghi solchi in un viso precocemente invecchiato, su cui però

                  scivolavano adesso solo lacrime di gioia: l’ineffabile felicità di sentirsi due volte madre.