Le ragazze Leone – Racconto di Alberto Arecchi

Mi trovavo in un Paese dell’Africa Centrale, come consulente d’un progetto di sviluppo. Un giorno, lessi su un quotidiano locale la notizia d’un processo penale. Il cronista si soffermava con macabro gusto sui particolari più cupi della vicenda. Diverse ragazze erano state rapite da piccole, in alcuni villaggi rurali. Rinchiuse per anni in gabbie, erano state addestrate a comportarsi come belve carnivore, a nutrirsi esclusivamente di carne cruda e sanguinolenta, costrette a catturare piccole prede per cibarsene. Una volta completato l’addestramento ferino, erano state usate per compiere assassini su commissione. Partivano in gruppo per colpire le vittime designate e si coprivano con pellicce fresche, che emanavano un forte odore di fiere, con affilati artigli metallici alle mani e ai piedi. La loro azione era difficile da distinguere da un attacco di vere fiere predatrici, se non per una caratteristica tipicamente umana: le belve, in natura, uccidono soltanto per nutrirsi o per sfamare i propri piccoli; solo gli animali impazziti – e naturalmente l’uomo – uccidono in assenza degli stimoli della fame.

Le donne-leone, donne-leopardo o – talvolta – donne-iena, erano una tradizione antica dei rituali sciamanici dell’Africa più oscura. Nella società d’oggi quest’usanza sopravvive, sporadica e segreta, come una forma di plagio e condizionamento, controllata da personaggi temibili, dal comportamento criminale. Le ragazze costituiscono piccoli gruppi di sicari imprendibili e uccidono i nemici dei loro “padroni”, per motivi di rancore, di vendetta o di rivalità.

Durante quell’inchiesta, raccolsi testimonianze di fatti misteriosi. Esistevano criminali occulti, al servizio di chiunque pagasse abbastanza per compiere un assassinio. Lo strumento di morte erano quelle povere ragazze, rapite alle famiglie in tenera età e allevate in gabbie, nutrite di carne umana, tutto il tempo a quattro zampe come bestie, addestrate ad uccidere. I travestimenti ferini delle giovani assassine diffondevano il terrore. Si sapeva e si fingeva di non sapere, si temeva di dire o di vedere troppo.

Notte d’estate. Certe mattine, sembra di leggere bollettini di guerra, combattuta per le strade, quasi sotto i nostri occhi chiusi, mentre dormivamo pacifici. Ogni notte c’è qualche morto, per incidenti stradali, per overdose di droga o per regolamenti di conti. Le due vittime di stanotte, però, erano piuttosto inconsuete. Le loro ferite erano troppo simili a lacerazioni d’artigli metallici, affilati. Ritorna la sensazione dell’incubo che mi perseguita. Come se la lettura di quel giornale avesse riaperto una piaga ancora sanguinante, ed avesse evocato una terribile presenza che cercavo di escludere dalla mia memoria. Le ragazze-leone sono calate tra noi, in questa realtà un tempo pacifica, in cui si uccideva soltanto di pistola o di coltello.

Una gigantesca pantera è stata vista aggirarsi nel parco e le forze dell’ordine le danno la caccia, ancorché non siano convinte dell’esistenza della fiera.

Credo di sapere chi può aver commesso l’ultima strage e so che i battitori non troveranno nessun felino… ma chi mi crederebbe, se raccontassi gli incubi che popolano la mia memoria?

 

 

Alberto Arecchi è un architetto che oggi vive a Pavia, ha trascorso diversi anni lavorando in Africa, in diversi Paesi.

Si diletta nella scrittura di racconti, storie, poesie. É il presidente dell’Associazione culturale Liutprand.
sito internet: www.liutprand.it

http://www.liutprand.it/albertoArecchi.asp