Tamburi nella notte all’Equatore – Racconto di Francesca Giommi
Nella quasi totale oscurità, Isabel aveva assistito con il fiato sospeso alla
rappresentazione dell’atto unico “Gli schiavi” del famoso commediografo ganese Ben
Abdallah, seduta a terra in una delle celle che cinquecento anni prima era stata la
prigione maschile del castello di Elmina, tra una quarantina di stipati spettatori come
lei commossi e ammutoliti. Da tre giorni si trovava in Ghana per assistere alle
celebrazioni del Panafest e già dall’arrivo quel mattino in quel variopinto borgo di
pescatori affacciato sull’oceano Atlantico lungo quella che un tempo veniva chiamata
la Costa d’oro era stata come rapita e trasportata in un’altra dimensione fuori dal
tempo. Con una piacevole passeggiata si era dapprima inerpicata sul colle da cui si
godeva una vista mozzafiato e aveva percorso senza fretta il perimetro di quel forte
mercantile di origine portoghese che si ergeva bianco e fiero sul promontorio da
cinque secoli, circondato da palme alte e silenti come sentinelle con le chiome
spettinate dal vento salmastro dell’oceano. Attratta dalla sua apparentemente
elegante e solenne architettura, ne aveva poi visitato l’interno. Quel luogo aveva
però iniziato ad apparirle sinistro man mano che la guida locale illustrava ai visitatori
la storia del paese, narrando dell’arrivo dei colonizzatori europei sul finire del
Quattrocento, con i loro traffici di armi e metalli preziosi, e della riduzione in catene
di loro simili per farne forza lavoro in Europa o nell’ancor giovane America. Quando li
condusse infine alla “porta del non ritorno”, piccola apertura a picco sull’oceano
attraverso la quale gli schiavi venivano imbarcati sulle rotte atlantiche, un groppo
attanagliò Isabel alla gola senza più abbandonarla. E ora quella suggestiva
rievocazione scenica, culmine emotivo di una giornata già di per sé densa di eventi e
sollecitazioni, l’aveva del tutto disarmata.
Tornando a respirare a pieni polmoni la brezza marina di quella calda sera stellata di
fine luglio, uscì dal castello con un sospiro di sollievo, ma con un grosso macigno che
ancora le opprimeva l’animo. In pochi minuti raggiunse a piedi la centralissima
Amkred Guest Home, dove già dal mattino aveva trovato alloggio su consiglio della
sua inseparabile Rough Guide e si ritirò nella sua stanza, enorme e quasi vuota, con
le pareti scalcinate, un ventilatore appeso al soffitto ma chissà da quanto tempo non
più funzionante e grate arrugginite alla finestra. Non appena appoggiò il capo sul
grosso e bitorzoluto cuscino di un ancor più smisurato letto king size, non ci volle poi
molto perché cadesse in un sonno profondo.
Quella che aveva dunque tutte le premesse per garantire un lungo ed indisturbato
ristoro, si rivelò invece una notte insonne.
Verso le due del mattino infatti, Isabel fu risvegliata da uno strano lamento, che si
fece gradatamente più intenso e pietoso man mano che la ragazza riacquistava
coscienza, tenendola poi sveglia per ore con la sua monotona ripetizione di strazianti
suoni gutturali intervallati da qualche occasionale acuto al ritmo degli immancabili
tamburi che sempre accompagnano i misteriosi riti africani. Di che rito si trattasse in
quel caso, Isabel non aveva alcuna cognizione. Dando fondo alle sue reminiscenze
culturali e a tutta la sua fantasia, congetturò che si stessero compiendo cerimonie
sacrificali o chissà quale tribale ed esoterico rito di passaggio o iniziazione.
L’impossibilità di tornare a dormire si fece via via più esasperata tanto da sfociare in
un lungo piano-sequenza sospeso tra il sonno e la veglia, durante il quale rivisse
mentalmente e quasi in prima persona le terribili scene di quella rappresentazione
teatrale, arrivando a sentire sui suoi polsi e sulle sue caviglie il peso e il freddo delle
catene e lo sferzare delle frustate lungo la schiena, senza più poter distinguere se
quei pietosi lamenti venissero dall’esterno o fosse lei stessa a produrli.
Con la fronte imperlata di sudore e sopraffatta dalla stanchezza, Isabel riacquistò
alfine la quiete solo mentre già fuori albeggiava, troppo tardi ormai per potersi
chiamare sonno, e passò i pochi minuti che la separavano dalla sveglia fissando la
zanzariera bucherellata che pendeva dal soffitto fino ai piedi del letto, e che avrebbe
dovuto difenderla dalle pericolosissime zanzare dell’Africa equatoriale, più feroci e
temibili dei leoni, almeno per chi si aggira in città e non fa safari nella savana. Ai
primi promettenti raggi di sole che filtravano dalle finestre senza tende, si alzò di
scatto, si vestì tutto sommato di buon umore nonostante la straniante nottata
appena intercorsa e scese affamata a fare colazione. Imburrò abbondantemente la
sua fetta di pane bianco in cassetta con la speranza che la risarcisse in parte delle
energie necessarie per affrontare una nuova impegnativa giornata e iniziò a spolpare
voracemente un succoso mango, impiastricciandosi irrimediabilmente le dita, il
mento e le guance del suo zuccherino nettare.
Fu forse nel tentativo di aiutarla a dissimulare l’imbarazzo che il proprietario della
guest house attaccò bottone per primo. In un vago e biascicato inglese le spiegò
che quella notte nel compound a fianco si era celebrata una veglia funebre, al suono
dei tamburi tradizionali Ashanti che sempre accompagnano la dipartita dei defunti e il
loro viaggio nell’ade. Gli strazianti cori che aveva udito rappresentavano non una
triste fine ma il trionfale inizio di un nuovo cammino, che sarà tanto più radioso
quanto più partecipato e sentito è il commiato dei propri cari rimasti in questo
mondo. Non di superstizioni o stregoneria si trattava dunque, ma della resilienza di
un popolo millenario e fiero che è stato strappato alla sua terra, privato della sua
umanità e disperso nella diaspora, ma che affronta ancora la vita con dignità e si
augura una rivalsa e un futuro migliore nell’aldilà.
Francesca Giommi
Viaggiatrice e lettrice appassionata, ama girare il mondo, ascoltarne le voci, ammirarne i volti, gli usi e i costumi e provare a raccontarne piccoli frammenti. Attualmente vive e lavora come guida turistica nel suo bel Montefeltro, illustrando a visitatori di ogni età e provenienza le bellezze uniche ed ineguagliabili del suo “angolo di mondo”.”